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Lanciare il cuore oltre la rete

Priscilla Okoh non ha neppure vent’anni quando lei e la sua famiglia (la madre, una sorella, un fratello, il padre non c’è più) sono abbordate da un uomo. Promesse allettanti, rassicurazioni, “penso a tutto io”. Noi sapremmo, forse, a cosa pensa. Abbiamo letto storie di tratta. Priscilla parte e già il viaggio (breve, era la promessa) è un inganno. Il primo. Priscilla capisce. Dice no e scappa. Arriva ed è accolta a Reggio Emilia nel 2016. Ha una casa e un lavoro, ama il volley e ha un sogno. Condiviso con Piergiorgio Paterlini, che racconta questa storia e questo sogno altrimenti invisibile. Come quelle di Samana, di Sana (riprese in questo sito) e le tante che lo scrittore reggiano ci ha offerto e ci offrirà.

 

Colloquio con Priscilla Okoh (ed Erika Bin)

Lo schermo di Zoom. Il dialogo un po’ in inglese un po’ in italiano. Le mascherine che impastano le parole. La stanza che oggi purtroppo rimbomba. Così ho conosciuto Priscilla. Quando ho provato a riascoltare la registrazione mi sembrava di aver registrato non un’intervista, ma il rumore di un vecchio camion che si arrampicava su una strada di montagna. Spengo il registratore. Non mi serve.

Valeva la pena, invece, parlare un’ora con Priscilla. E devo dire subito che senza l’aiuto di Erika Bin, coordinatrice, che era lì di fianco a lei non ne sarei uscito vivo.  Avevo già letto inchieste, e perfino un libro, sulla tratta delle nigeriane. Ma avere una ragazza di 24 anni in carne e ossa davanti a me, per quanto attraverso uno schermo, e “vedere” la sua storia, be’, vi assicuro è tutta un’altra cosa.

Siamo in un piccolo villaggio della Nigeria. La gente muore di fame, spero non vi suoni nuovo. Priscilla non ha neanche vent’anni, vive con la madre, un fratello, una sorella (il padre non c’è più). Arriva un uomo. Abborda lei, incontra la famiglia. Le dice: «In Italia il lavoro c’è». «Ma siamo sicuri che c’è lavoro?». «Certo, e il viaggio sarà breve, massimo due settimane». «E i soldi?», domanda la madre. «Penso a tutto io», risponde con sicurezza l’uomo. Loro no, ma lui sa che si sarebbe rifatto dieci, cento volte tanto. Che ne possono sapere invece Priscilla e la sua famiglia? E anche se non si accettano caramelle dagli sconosciuti, la fame è più forte della paura.

Partono. Perché lui è con lei, non la perde di vista un minuto. Il viaggio si rivela il primo inganno. È lunghissimo, faticoso, la Libia, un barcone. L’arrivo a Bologna. Il secondo inganno: il fratello dell’uomo che l’aveva avvicinata in Nigeria le chiede di ripagare tutte le spese. Infine, nel capoluogo emiliano si capisce che il lavoro non era una bugia, c’è davvero, ce n’è quanto si vuole. Se una ragazza giovane e nera accetta di prostituirsi.

Priscilla dice no. Scappa. Arriva all’Hub di accoglienza, poi a Reggio Emilia. E comincia il percorso di integrazione. Siamo alla fine del 2016, a Priscilla – pur così giovane – bastano due anni (sempre che due anni siano pochi) per terminare la prima fase del percorso, uscire dal Progetto, trovarsi una casa dove vivere da sola, e un lavoro. Il “percorso” è così diverso da quello di altre ragazze come lei e così strabiliante che prima un’azienda reggiana poi Dimora d’Abramo le offrono un lavoro. Come donna delle pulizie. Che a Priscilla piace. Non si sente una schiava e nemmeno una serva, ma una ragazza che dignitosamente si guadagna il pane per vivere, in attesa di ancora maggiore stabilità e di poter mandare un po’ di soldi alla famiglia rimasta in Nigeria. Una schiava lo sarebbe stata se avesse accettato di prostituirsi, una serva, forse, nel suo villaggio.

Le chiedo, sentendomi un po’ stupido, come sta oggi.

«Molto meglio di quanto stessi nel mio Paese e di quando sono arrivata in Italia», mi risponde Priscilla. «E se mi sento così – aggiunge – è perché, a differenza di altre ragazze, ho seguito delle regole. Quelle che mi hanno proposto gli educatori, ma anche quelle che mi sono data io».

Quali regole?

«Non limitarmi ad aspettare il permesso di soggiorno, cercare un inserimento vero, una prospettiva di vita».

E così è stato. Così è oggi. Priscilla non potrebbe tornare in Nigeria, né lo vorrebbe. Se tornasse i trafficanti di schiave potrebbero farle del male. Reggio va bene, il lavoro va bene. Sogna una famiglia tutta sua, come tutte le ragazze del mondo. O quasi.

Nostalgia?

«Sì, della mia famiglia lontana. Sono già quattro anni che non li vedo. Spero un giorno di riabbracciarli».

A parte lavorare, continua a studiare l’italiano – una lingua per lei molto difficile (anche per molti italiani, mi scappa di pensare, ma non lo dico) – legge la Bibbia, frequenta una chiesa Pentecostale. «Sono cristiana, ci tengo ad andare alla mia chiesa». La sua chiesa. Giusto. Questa oggi è la sua città, e la sua chiesa.

Priscilla è una ragazza molto alta. Improvvisamente penso a Paola Egonu, di origini nigeriane anche lei, campionessa inimitabile della nazionale italiana di pallavolo. Allora le chiedo se ama lo sport.

Dice: «Giocavo a pallavolo, nel mio Paese. Qui vedo i campetti sparsi per la città, vedo gente giocare. Fra le tante proposte, quella della pallavolo non me l’ha fatta ancora nessuno».

Eri brava? chiedo.

«Ero? Sono brava», risponde finalmente ridendo.

Be’, io le credo.

Adesso l’aspettano gli uffici da pulire ma mentre saluto e ringrazio le dico: ok, fra cinque anni nella nazionale italiana di pallavolo, è un augurio, ma tu promettimelo. Promettimelo che ti vedrò in televisione.

Ride. Priscilla ride. Ma mica è uno scherzo. È un sogno, un sogno bellissimo che non aveva mai rivelato a nessuno prima. Un sogno che, con la sua determinazione e la mano di qualcuno, si potrebbe anche realizzare. Allenatori e scout di pallavolo, se ci siete, battete un colpo. Un provino non si nega a nessuno. Poi chissà che proprio con Priscilla non facciate l’affare della vostra vita.

Piergiorgio Paterlini

 

 

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