Al doposcuola andateci voi! Millennials non lo è: è spazio di ascolto e accoglienza. Per chi? Minori preadolescenti e adolescenti, italiani e stranieri, non fa differenza. Sono a forte rischio di marginalità sociale, dispersione scolastica e fallimento formativo: questa è la “differenza”. Qui si sentono finalmente parte di qualcosa. Hanno iniziato a frequentarsi fuori dai locali del Centro Educativo. E gli occhi degli educatori brillano, come racconta Piergiorgio Paterlini
colloquio con Sara Cerroni, Luisa Ciaparrone, Samuel Carpi
Reggio emilia, 11 marzo 2021. Mi sono ricordato di quel pomeriggio quando nel cortile della scuola elementare abbiamo costruito una mongolfiera e provato a farla alzare in volo, insieme a una maestra giovanissima, diversa da quella del mattino. Di un doposcuola non c’era alcun bisogno, ma proprio nessuno, nel mio paesino, nei primi anni Sessanta. Però faceva figo, e il direttore aveva brigato per metterlo su. C’ero andato, con una non tanto sottile angoscia da carcerato minorile, per alcuni giorni. Poi avevo detto ai miei: o Roma o morte. Cioè mai più. O casa o morte. Avevo già i miei amici, il mio pallone e il campetto di calcio, i miei fratelli e i miei cugini e i miei libri e a scuola ero bravo. La vita era perfetta così. Al doposcuola, andateci voi.
Curioso che anche Sara Cerroni, che ha 28 anni, dica oggi la stessa cosa: «Se i miei avessero provato a mandarmi a un doposcuola, figuriamoci. Avevo le mie amiche, lo sport, ero brava a scuola. Neanche a pagarmi».
Oggi Sara coordina, in quattro stanze in via Veneri, una cosa che sembra proprio un doposcuola – dalle 12.30 alle 18.30, il pranzo per chi ne ha bisogno, gli altri che arrivano un po’ più tardi, dal lunedì al venerdì – ma un doposcuola non è. Solo che non è che sia cambiato il doposcuola, sono cambiati i ragazzi. E la realtà sociale, le famiglie, i “bisogni”, il contesto. Sarebbe più esatto dire: è cambiato il mondo.
Dal 26 ottobre, dunque da appena quattro mesi, è attivo il Centro Educativo Millennials. La definizione ufficiale è questa: «uno spazio di ascolto e accoglienza dei bisogni di minorenni preadolescenti e adolescenti italiani e stranieri dagli 11 ai 17 anni a forte rischio di marginalità sociale, dispersione scolastica e fallimento formativo». Per Millennials, se qualcuno non avesse già fatto l’orecchio a questo termine, si intenderebbero in realtà giovani e uomini tra i 25 e i 40 anni, quelli nati cioè tra il 1981 e il 1996, noi qui parliamo invece di ragazzini rigorosamente tra gli 11 e i 17 anni, dunque post- Millennials, Generazione Z, Generazione Y, non è ancora chiaro come chiamarli. Ma Millennials è un nome troppo bello, va bene così.
In ogni caso, delle tre parole Centro-Educativo-Millennials, è “educativo” la parola chiave, mi dice uno dei tre non a caso educatori, Samuel Carpi.
E cosa succede in questo Centro? Chi tre, chi quattro, chi cinque pomeriggi la settimana 25 ragazzi (il massimo della capienza consentito) vengono seguiti (un educatore ogni 8 ragazzi) nell’apprendimento scolastico e nel loro “lavoro” di socializzazione, in attività ludiche e sportive, all’aperto (calcio, basket), al chiuso: musica, danza, il buon vecchio cineforum (si vede un film poi se ne discute tutti insieme), giochi di società. Oggi ci sono ragazzi figli di immigrati, o ragazzi nati a Reggio ma da famiglie provenienti anch’esse dall’emigrazione (la famosa generazione “ius soli”): Tunisia, Marocco, Ghana, Nigeria, Senegal, Cina. La gran parte sono adolescenti di prima e seconda media, gli altri terza media e superiori. Otto femmine, diciassette maschi.
Cosa li accomuna? Il fatto che siano seguiti dai Servizi sociali. E perché sono seguiti dai Servizi sociali? Si parte dalla presa d’atto, dal “segnale” – è sempre così – di forti difficoltà scolastiche per scoprire che le difficoltà sono, come si suol dire, a monte: povertà, o famiglie a vario titolo disgregate (separazioni, tribunali, conflitti, qualche condanna, droga). Genitori che non ce la fanno ad occuparsi di questi figli, seguirli, ascoltarli. Travolti dai loro problemi o privi di strumenti, o prigionieri di mentalità arcaiche che a volte non riguardano i Paesi di provenienza, quindi il tema migrazione-integrazione, ma i paesini del Sud nostrano dove alcune di queste famiglie hanno vissuto prima di approdare a Reggio Emilia.
I ragazzi arrivano al Centro con difficoltà di apprendimento, difficoltà a stare con gli altri, fatica a rispettare le regole di ogni contesto collettivo, a volte violenza, verbale o anche fisica.
Immagazzinate tutte queste informazioni, chiedo di nuovo che succede allora lì, in quei pomeriggi che mi immagino faticosissimi per tutti, ragazzi ed educatori, e un po’ disastrosi.
Invece no. Sara, Samuel, Luisa Ciaparrone parlano con una voce sola. «Nonostante la costrizione iniziale, tutti questi ragazzi vengono volentieri, sono molto contenti di essere qui, percepiscono che questo luogo è loro, si sentono finalmente parte di qualcosa, e fanno amicizia, non stanno più ognuno da solo davanti al proprio cellulare. Non vedono l’ora di arrivare. Nonostante la pandemia, abbiamo tenuto il Centro sempre aperto, ed erano proprio i ragazzi a essere preoccupati per un eventuale lockdown. Chiedevano, con ansia. Il virus ha messo più a rischio questa fascia d’età che gli adulti, il Centro li ha “salvati” dall’isolamento, per loro è una grossa boccata d’ossigeno (a proposito di Covid-19…), sia rispetto alle restrizioni per il virus che alle loro situazioni familiari».
Quattro mesi, e risultati che hanno dell’incredibile. Addirittura alcuni di questi ragazzi – prima completamente soli, spesso asociali – hanno cominciato a frequentarsi anche fuori dal Centro.
«Per me – dice Luisa – è stata la scoperta di un mondo che non conoscevo, e che non immaginavo, la distruzione di ogni immagine stereotipata dei ragazzi d’oggi. Che hanno abilità, competenze, sensibilità, creatività, conoscenze – non solo tecnologiche – che non avrei immaginato. Una voglia di mettersi in gioco, a tutti i livelli: emotivo, di contatto, anche fisico, un grande bisogno di relazioni, vicinanza, scambio interpersonale. Vengono qui perché possono esprimere sé stessi e altrove no. È qui e solo qui – in questo luogo che parrebbe chiuso e costrittivo – che si sentono liberi».
Allora bisogna essere contenti.
Sì, certo. Ma come ogni educatore che si rispetti anche Sara, Luisa, Samuel mi raccontano la frustrazione e a volte la rabbia di non riuscire a fare di più, soprattutto fuori dal Centro, non riuscire – nonostante i contatti stretti, la costruzione di reti tra famiglie, insegnanti, assistenti sociali – a cambiare le situazioni che generano il “disagio” dei ragazzi.
Sara mi dice quanto sia pesante la responsabilità, ma anche quanto sia bello vedere la voglia di questi ragazzi «di avere un posto in cui stare bene». Poi aggiunge: «Ho solo 28 anni, in fondo sono ancora vicina alla loro età, o almeno lo pensavo, ci dividono poco più di dieci anni. Mi ero detta: non sarà difficile capirli. Invece, visti da vicino, sono già cambiati interessi, mentalità, conoscenze, abilità. Una marea di cose».
Il prossimo passo è insieme naturale ed enorme. Il “focus” sul futuro lo esplicita Samuel: «Adesso che li abbiamo conosciuti, che abbiamo conosciuto come sono davvero questi ragazzi, come potrebbero essere sempre, vogliamo portarli fuori, sul territorio, non basta far loro sperimentare una vita diversa in un luogo protetto. Qui vicino c’è una scuola di musica, un circolo di equitazione, una palestra per arrampicate… come sarebbe bello vederli felici lì».
Insomma, a parte che dopo i 17 anni nel Centro non puoi entrare, l’obiettivo è quello di ogni adulto responsabile: aiutare i più piccoli a diventare a loro volta adulti, autonomi, realizzati, non tenerli eternamente appiccicati alle proprie sottane, come si sarebbe detto un secolo fa.
Il racconto si è fatto via via più disteso. Le inevitabili mascherine, se nascondono il naso e la bocca celando i sorrisi, non arrivano per fortuna a nascondere gli occhi. Soprattutto quando brillano.
Piergiorgio Paterlini
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